|  SANDRO MELE: “CAMPO ARGENTINO”
 Il giovane artista salentino Sandro Mele espone 
                      (per la prima volta a Roma), presentato da Raffaella Guidobono, 
                      una sua installazione: “Campo argentino”, quasi 
                      un resoconto, materia ed emozioni, del suo viaggio, della 
                      sua vita e del suo incontro in Argentina con la realtà, 
                      umana e terrestre, della remota provincia agricola in cui 
                      uomini e cose, tempo lavoro e stagione ritrovano il senso 
                      e la misura che sono antica eredità dell’uomo 
                      sulla terra.La terra appunto, la materia grassa, odorosa e fertile che 
                      inonda lo spazio espositivo e invita lo spettatore ad inoltrarsi 
                      nel viaggio a ritroso, ai confini di un mondo forse trascurato 
                      e dimenticato, lontano dagli incontri-scontri metropolitani 
                      (il quotidiano, penoso “crash” dei nostri giorni) 
                      ma dove forse inizia il sentiero possibile per incontrarci 
                      senza ostilità e diffidenza. All’intorno, nell’humus 
                      che è ferace, arcaica promessa, piccoli germogli 
                      sono la naturale conseguenza, lavoro e speranza, di una 
                      mai delusa fertilità. La sequenza fotografica (foto 
                      digitali su supporti di legno, “seppiate” con 
                      terra e paraffina) illustrano ancor più, nei volti 
                      e nei gesti, l’amicizia e la condivisione di chi con 
                      l’artista ha vissuto l’incontro, aperto e generoso, 
                      dall’altra parte dell’oceano, che è simile 
                      alla storia del suo, del nostro sud, “gauchos”, 
                      “hacienderos” o contadini che siano. Un dittico 
                      su tela, in parte foto ridipinta, in parte elaborato a carboncino, 
                      completa con il suo paesaggio, questa sorta di “reportage” 
                      sentimentale di un esistere che è nostra radicata 
                      appartenenza.
 Troneggia nella sala—campo la scultura—panchina 
                      in ferro che è poi il “logo” del gruppo 
                      “Minimono”, autori di musica elettronica con 
                      cui l’autore divide “performance” e intenti, 
                      musica che commenta e sottolinea l’installazione sollecitando 
                      nel percorso la componente misteriosa ed atavica alle origini 
                      terrestri dell’uomo.
 Luigi M. Bruno |