Gianna Gelmetti
da Il Tesoro Verde
Empoli (Firenze)
Ibiskos Editrice, 1989

DIECI RAGAZZI IN UNA BARCA

C’era un reame in riva ad un lago rotondo, azzurro, e profondissimo. In basso, nella parte più oscura, dove non arrivava neppure un riflesso di luce, nasceva la sorgente che lo alimentava, e un fiume portava la sua acqua lontano, verso il mare. Nessuno degli abitanti del reame avrebbe mai osato attraversare quel fiume perché lì in un bosco cupo e smisurato copriva le pendici di una montagna altissima. Lassù in un castello nascosto dalle nubi abitava una strega solitaria e misteriosa che nessuno aveva mai visto, ma che tutti temevano. E avevano ragione di tremare, perché una maledizione pesava su di loro da molte generazioni. Ogni anno dieci giovani di diciotto anni scelti fra i più belli, venivano messi in una barca, portati in mezzo al lago, e lì erano abbandonati e non se ne sapeva più nulla.
Nessuno poteva dire quando era cominciato questo rito, nè perché. Si sapeva solo che bisognava farlo per evitare vendette da parte della strega.
Se non fosse stato per questo incantesimo il reame sarebbe stato un paese felice. La terra era fertile e piena di fiori e frutti, il lago era pieno di pesci, e i prati pieni di animali che pascolavano. Il re organizzava feste in tutte le occasioni, il popolo cantava e beveva, e ogni anno c’era un gran ballo a corte dove erano invitate tutte le ragazze fino alla più umile contadina, e tutti erano così felici e così grati al re e alla regina per la loro magnanimità che nessuno si domandava più il perché di quei dieci ragazzi.
Solo i familiari per un anno mantenevano un lutto silenzioso.
Del resto nessuno desiderava parlare con loro, e davanti alle loro porte coperte da un drappo nero la gente taceva e affrettava il passo.
Le persone più felici del reame erano Paolo e Caterina. Erano giovani, belli e si amavano. Appena compiuti i diciotti anni lei sarebbe andata alla festa a corte, e poi si sarebbero sposati.
Anche lui doveva partecipare ad una festa appena compiuti i diciotto anni, una lugubre festa a cui non sapeva di essere destinano.
Una mattina Caterina andò alla casa di Paolo e fuori della porta vide una carrozza nera, tirata da quattro cavalli neri con i finimenti d’argento. Bussò e le aprì la madre che piangeva, e c’era un grande silenzio nella casa. In mezzo alla stanza Paolo aveva indosso una tunica nera con i bordi d’argento e intomo a lui c’erano quattro persone con dei cappucci sul viso che gli mettevano in testa una corona di rose nere. Poi lo portarono fuori e lo fecero salire sulla carrozza. Lentamente si allontanarono per le vie deserte. Caterina usci, senza curarsi di chi voleva trattenerla, e segui la carrozza.
Non c’era nessuno per le strade, nessuno alle finestre, non una voce.
Quando arrivarono alla piazza vide che altre nove carrozze stavano arrivando, ognuno con un ragazzo tremante col capo coronato di rose nere.
Si fermarono tutti in riva al lago di fronte ad una barca d’argento con le vele nere.
Gli incappucciati trassero degli strumenti e cominciarono a suonare una canzone. Poi cominciarono una. danza lenta intorno ai dieci ragazzi. Tutta la giornata passò con questi canti e queste danze e quando il sole cominciò a calare dietro la montagna gli incappucciati fecero salire i ragazzi sulla barca, con delle lunghe pertiche la spinsero verso il largo, poi il vento della sera gonfiò le vele e l’imbarcazione si allontanò. Le vele si confusero con il nero della notte e la barca d’argento con il riflesso della luna, poi non si distinse più nulla.
Caterina rimase molto tempo sola nella piazza buia, poi cominciò a camminare lungo la riva, poi cominciò a correre. Corse tutta la notte finché arrivò al fiume che scorreva luccicando sotto la luna. Li si buttò in terra piangendo.
Senti un fruscìo e una mano umida le si posò sul capo. Si rizzò a guardare.
Davanti a lei c’era una creatura che stillava acqua e somigliava più ad una pianta che ad un essere umano. Sotto il fango che la ricopriva la pelle era squamosa, gli occhi grandi e sporgenti, i capelli lunghissimi, verdi e viscidi come alghe. Era piccola e curva, con mille rughe da animale antichissimo, e dalla bocca sottile che le tagliava in due il viso la voce gorgogliava e schiumava.
«Anch’io ero venuta qui come te» diceva «a piangere il mio ragazzo perduto. Volevo attraversare il fiume e uccidere la strega.
Ma non sono riuscita e sono rimasta qui fra le rane e i pesci miei amici aspettando dì vederlo uscire dall’acqua. Ma lui non è tornato e sono passati tanti anni, tanti anni...» Sotto la luce della luna si vedevano centinaia di girini brulicare fra i capelli e si sentivano le loro piccole voci.
«Ho imparato il loro linguaggio» continuava «e ho saputo che c’è un modo per spezzare l’incantesimo. Ma ormai sono vecchia e non posso più muovermi. Ma voglio dirti tutto e se avrai coraggio potrai sciogliere l’incantesimo.»
Caterina giurò che avrebbe fatto qualunque cosa e senza più paura sedette accanto alla vecchia e l’ascoltò.
«Tanti e tanti anni fa questo lago era deserto, abitato solo dal popolo delle rane, dei pesci e delle alghe che mi hanno narrato la storia del reame.
Un giorno di primavera arrivarono a questa riva un re e una regina col loro bambino e poche decine di sudditi. Si fermarono e decisero di fondare una città. E così fecero. Ma avevano appena finito di costruire l’ultima casa quando il re, solo il mezzo a un prato guardando la notte, vide un punto luminoso dall’alto della montagna scendere velocissimo verso di lui.
Avvolta in una gran fiammata si vide accanto la strega, grande e lucente come un demonio.
“Questo lago è mio” gli disse “Vattene.”
“Ti prego” supplicò il re “lasciami stare qui.”
“E sia. Ma in cambio devi darmi il tuo bambino e tutti i maschi primogeniti dei tuoi discendenti appena avranno compiuto i diciotto anni.”
Il re si gettò ai suoi piedi, poi visto che la strega era irremovibile propose: “Ti darò ogni anno i dieci giovani più belli del reame.”
“Va bene. Fra diciotto anni voglio dieci ragazzi in una barca.
Oppure mi piglierò tuo figlio e tutti i primogeniti dei tuoi discendenti.”
I suoi capelli si accesero di un gran fuoco e una nube rossa la portò in alto in cima alla montagna. E il re dovette fare come aveva promesso se non voleva perdere suo figlio. Nessuno seppe mai il motivo di tutto questo. E così fu, per molte generazioni fino ad oggi. Se vuoi salvare il popolo dei ragazzi del lago devi passare un anno insieme a me. Io ti insegnerò il linguaggio dei pesci e delle alghe.»
Caterina promise. Allora tutte le rane cantarono e i pesci danzarono sul pelo dell’acqua per festeggiare la coraggiosa ragazza.
Dopo un anno la vecchia morì, ma Caterina aveva ormai imparata il linguaggio delle alghe e dei pesci, e un giorno si tagliò i capelli, si infagottò in un vestito da uomo e tornò al paese. Era il giorno del sacrificio dei ragazzi e gli incappucciati cercavano le loro vittime. Quando videro questo ragazzo sconosciuto, povero e solo, bello come un angelo, non ebbero esitazioni. Lo afferrarono, lo vestirono della tunica nera, posero una corona di rose nere sui corti ricci biondi e lo portarono sulla carrozza fino alla piazza. Li si ripeté lo stesso rito che Caterina aveva visto l’anno precedente.
Al calare del sole Caterina e i suoi nove compagni vennero messi dentro una barca e spinti verso il largo.
Lentamente la barca lucente si avvicinava al centro del lago.
A mezzanotte una gran luce illuminò la cima della montagna e un rumore di tuono rimbalzò per le gole rocciose, scosse le cime degli alberi, scivolò lungo i ciottoli della riva e increspò le acque tranquille del lago fino a formare una spirale vorticosa che trascinò la barca e la inghiottì.
Caterina e i compagni chiusero gli occhi.
Quando li riaprirono erano in fondo al lago.
Di fronte a loro, in un trono di rocce, alghe e muschi fosforescenti che ondeggiavano e spandevano una luce verde, sedeva la strega, circondata dal popolo silenzioso dei ragazzi del lago.
Aveva gli occhi lucenti come cristalli e i capelli lunghi e rossi fluttuavano intorno al volto crudele formando un’aureola. Ai suoi piedi sgorgava la sorgente con la sua piccola luce di madreperla che sfiorava i volti di dieci ragazzi che sedevano immobili a custodirla. Tra di loro Caterina riconobbe Paolo.
La strega ordinò che i nuovi arrivati custodissero la sorgente, mentre gli altri sarebbero passati al vivaio dei pesci. E quelli che stavano al vivaio sarebbero passati alle serre dove crescevano le erbe magiche.
Quando ebbe finito di parlare una miriade di bollicine la avvolse e la trasportò in alto finché scomparve nel buio.
I ragazzi della sorgente si mossero e con gesti lenti e ondeggianti spiegarono ai nuovi compagni come dovevano fare per regolare il flusso d’acqua. Fu allora che Paolo vide Caterina.
Un anno di vita prigioniero sott’acqua aveva quasi distrutto i suoi sensi. Il buio, il silenzio, l’inerzia, la monotonia lo stavano trasformando in un vegetale senza reazioni. Ma gli era rimasto qualche ricordo che di giorno in giorno si andava annebbiando. Il volto di Caterina fece emergere dal fondo della sua memoria le immagine di sole e di gioia di quando erano insieme nella loro città piena di fiori nell’aria tiepida. Caterina gli parlò sottovoce per non farsi udire dagli altri.
Furono necessari molti lunghi giorni per togliere Paolo dal suo torpore, e diventava sempre più difficile anche per lei rimanere sveglia e lucida in quella oscurità senza tempo.
Ma un giorno riuscì ad avvicinarsi al vivaio dove lui lavorava e finalmente poté parlare con i pesci.
«Anche noi eravamo come voi, tanto tempo fa» disse uno dei pesci «ma sott’acqua si cambia, piano piano. La strega ci tiene qui e ci nutre fino al giorno in cui afferra uno di noi e lo uccide, e ogni parte del corpo viene utilizzata per le sue magie che l’hanno resa padrona di questo luogo. Le nostre uova vengono seminate nella serra e fanno nascere le piante magiche: le piante fosforescenti che illuminano il suo trono, le piante rosse che danno il colore ai suoi• capelli, le piante trasparenti che danno lucentezza ai suoi occhi, i fiori del vento che la fanno volare, i fiori dell’aria che emettono le bollicine che la fanno sparire, i semi del tempo che la mantengono giovane. E ancora le foglie del sonno per addormentare i suoi prigionieri e le radici velenose per uccidere i nemici. Non mangiate più le foglie del sonno altrimenti nulla potrà salvarvi. Andate alla serra e parlate con il fiore della conoscenza.
Dategli questa pinna. Vi aiuterà. E si strappò una pinna. Un po’ di sangue intorbidò l’acqua e in quella nebbia rossa il pesce scomparve.
Cercarono la serra ma era impossibile trovarla. Dovettero aspettare fin quando Paolo venne mandato li ad occuparsi delle piante.
Era magro perché non aveva più mangiato le foglie del sonno, ma la sua mente era sveglia e il ricordo della luce doloroso.
Quando vide la pianta della conoscenza le mostrò la pinna e la pianta gli fece dono dei suoi frutti e gli disse il segreto della strega.
«Il suo potere è cominciato il giorno in cui ha imprigionato la sorgente. E finirà il giorno in cui la sorgente sarà liberata. Allora l’acqua del lago aumenterà e penetrerà in una galleria sotterranea dove sono le fondamenta del suo castello. Per controllare il flusso dell’acqua ha fatto schiavi gli uomini. E quando gli uomini diventavano pesci ha avuto bisogno di altri uomini che allevassero i pesci, e poi di altri uomini che coltivassero le piante che nascevano dai pesci. E così si è formato il suo grande impero. Dovete mangiare i semi dei fiori dell’aria. Si gonfieranno e diventerete leggeri e andrete in alto, su, fino alla superficie dove il lago diventa fiume.
È l’unica via dì uscita. Ma attenti c’è una piovra che vi impedirà di passare. Gettatele le radici della molle e non potrà più farvi nulla. Seguite il corso del fiume e raggiungete il mare. Li finisce il potere della strega.»
Paolo raccolse tanti frutti della conoscenza per darli ai compagni, e tanti semi dei fiori dell’aria, e le radici della morte.
Tutti i ragazzi del lago si svegliarono dal loro sonno e, guidati da Paolo e Caterina decisero di fuggire. Con le menti meravigliosamente chiare e i corpi leggeri come nuvole furono trasportati in alto in una gran vertigine, verso la luce del giorno che avevano dimenticato.
Arrivarono al fiume e li videro la piovra e le gettarono la radice, ma successe quello che non avevano previsto.
La piovra morendo si fermò all’imbocco del fiume e ostruì l’unica via di uscita.
Nel frattempo la strega dalla torre più alta del castello aveva visto l’acqua aumentare e sommergere il reame. Appena il reame sarebbe scomparso l’acqua avrebbe raggiunto le fondamenta del suo castello. Si precipitò alla sorgente e la trovò abbandonata. L’acqua prorompeva minacciosa e senza freni. Andò alla serra e trovò le piante divelte. Andò ai vivai e li trovò vuoti. Corse al fiume e trovò la piovra morta che ostruiva l’uscita e impediva all’acqua di uscire così il livello del lago saliva sempre più rapido e irresistibile.
Il popolo dei ragazzi si avvicinò minaccioso. Non avevano più paura di lei. Il suo sguardo lucente esprimeva terrore. I capelli erano spenti sul volto livido. Fuggì verso il laboratorio delle sue stregonerie. I ragazzi la inseguirono. Le ampolle e gli alambicchi esplosero, mentre lei, privata di qualunque potere si copriva il volto con le mani che diventavano secche e ruvide, e i capelli cadevano, e il corpo si ripiegava. Quando alzò il capo si vide una piccola faccia decrepita, con indosso tutti i suoi secoli di crudeltà che l’avevano consunta l’istante stesso in cui aveva perso i suoi poteri.
I ragazzi tornarono al fiume, spostarono la piovra, e l’acqua poté defluire e portarli verso il mare.
Lì fondarono la loro città, senza rimpianto per il reame scomparso che aveva sopravvissuto per secoli perché i suoi re traditori ogni anno avevano messo dieci ragazzi in una barca.

Gianna Gelmetti
da Il Tesoro Verde
Empoli (Firenze), Ibiskos Editrice, 1989